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Preparazione del wasabi fresco: dal rizoma al piatto

Come gestire e grattugiare correttamente il wasabi fresco per ottenere la massima qualità

Nel mondo del sushi d’eccellenza, anche il più piccolo dettaglio ha un impatto profondo. Il wasabi, spesso relegato a semplice spezia piccante da banco del supermercato, è in realtà una delle gemme più preziose della cucina giapponese. Quando fresco, grattugiato al momento, il hon-wasabi (本わさび) rivela un profilo aromatico elegante, erbaceo e leggermente dolce, molto lontano dalla nota pungente e aggressiva delle comuni paste industriali.

Sapere come trattare correttamente il wasabi fresco è un segno distintivo di maestria e rispetto per la tradizione.

Il rizoma di wasabi: un ingrediente raro e raffinato

Il wasabi (Wasabia japonica) è una pianta difficile da coltivare, che richiede acque sorgive pure, temperatura costante e ombra parziale. Cresce lentamente e sviluppa il suo rizoma — la parte utilizzata in cucina — nel corso di 18-24 mesi.

Piante di wasabi, se ne usano anche le foglie

Il suo sapore non è solo piccante: è complesso, vegetale, quasi balsamico, con un finale aromatico che svanisce in pochi minuti. Ed è proprio per questo che il wasabi fresco va grattugiato all’ultimo momento.

La scelta del rizoma

Non tutti i rizomi sono uguali. Quando si sceglie un rizoma di qualità:

  • Aspetto: deve essere compatto, senza ammaccature, con una superficie verde brillante e leggermente nodosa.
  • Tocco: deve risultare sodo ma non troppo rigido.
  • Profumo: fresco, verde, quasi mentolato, mai amaro o pungente.

Un rizoma appena raccolto può essere conservato in frigorifero, avvolto in un panno umido, per circa una settimana. Alcuni chef lo immergono parzialmente in acqua fresca, cambiandola ogni giorno, per mantenerne intatta la freschezza.

L’arte del grattugiare: l’oroshigane

Per ottenere la consistenza perfetta e liberare al massimo i composti aromatici del wasabi, serve lo strumento giusto. L’ideale è una grattugia tradizionale in pelle di squalo, chiamata oroshigane (卸し金).

  • Grattugiare con movimenti circolari e costanti, creando una pasta cremosa.
  • Non strofinare avanti e indietro: il calore e la pressione eccessiva possono alterare l’aroma.
  • Dopo aver grattugiato, si lascia riposare la pasta per circa 1 minuto: è in questo breve lasso di tempo che il wasabi raggiunge il suo picco aromatico.

Questa piccola pasticella verde chiaro non dovrebbe mai essere ammassata: meglio formare un ciuffo ordinato, o adagiarla con grazia sul piatto.

Come servire e abbinare il wasabi fresco

Nel sushi tradizionale, il wasabi non è mai protagonista. È un legame invisibile tra il riso e il pesce, un ponte di calore e freschezza che deve esaltare — non coprire — i sapori.

  • Nei nigiri, viene spesso messo tra il pesce e il riso, in quantità minima.
  • In abbinamento con carni grasse come il toro (ventresca di tonno) o l’anguilla, il wasabi aiuta a bilanciare il sapore.
  • Alcuni chef lo usano come finitura, accompagnando la fettina di pesce con una leggera pennellata di wasabi appena grattugiato, al posto della classica soia.

Importante: mai mescolare il wasabi fresco nella salsa di soia. Questo gesto, comune ma errato, ne altera completamente il profilo aromatico e spegne la sua complessità.

Un segreto vegetale che parla di rispetto e precisione

La presenza di wasabi fresco in un piatto di sushi non è solo un segno di autenticità, ma un indicatore del livello tecnico dell’itamae. Non è solo questione di ingredienti, ma di tempo, gesto e intenzione.

Chi sa trattare con rispetto il rizoma di wasabi dimostra di comprendere uno dei principi fondamentali della cucina giapponese: esaltare la purezza senza stravolgerla.

Quando il fresco non c’è: il valore delle alternative di qualità

Quando il rizoma fresco non è disponibile, anche il wasabi giapponese in polvere o in pasta di alta qualità può rappresentare una validissima alternativa, a patto che venga utilizzato correttamente: dosato con misura, idratato al momento e mai confuso con le paste economiche che contengono solo rafano e coloranti.

Prodotti realizzati con vero hon-wasabi essiccato e macinato conservano buona parte del profilo aromatico originario — fresco, erbaceo e delicatamente piccante — e, se riattivati con cura, possono accompagnare il sushi in modo armonioso, offrendo un’esperienza autentica anche in assenza del rizoma fresco.

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Utilizzo di pesci locali per reinterpretare il sushi fuori dal Giappone 

Utilizzo di pesci locali per reinterpretare il sushi fuori dal Giappone 

Come adattare il sushi a ingredienti reperibili localmente senza perdere autenticità 

Il sushi è un’arte culinaria in cui l’equilibrio dei sapori, la freschezza degli ingredienti, la tecnica di esecuzione e l’estetica della presentazione giocano un ruolo cruciale. Tuttavia, quando il sushi viene preparato al di fuori del Giappone, l’adattamento agli ingredienti locali può rappresentare una sfida, soprattutto se si desidera mantenere intatta l’autenticità del piatto. In questo contesto, l’utilizzo di pesci, crostacei e conchiglie del Mediterraneo può offrire nuove possibilità creative senza tradire lo spirito della cucina giapponese. 

Il Mediterraneo: una risorsa preziosa 

Il Mediterraneo offre un’ampia varietà di pesci e frutti di mare che possono essere utilizzati per creare sushi e sashimi innovativi ma autentici. Adattare il sushi giapponese agli ingredienti reperibili localmente è una sfida che molti chef affrontano con creatività e rispetto per la tradizione. L’obiettivo non è solo sostituire un pesce con un altro, ma trovare ingredienti locali che possano valorizzare la cucina giapponese mantenendo autenticità e profondità di sapore. Il Mediterraneo offre un’enorme varietà di pesci, crostacei e conchiglie che, se ben utilizzati, possono trasformare il sushi in un’esperienza unica e sorprendente. 

Pesci come la ricciola, il dentice e il tonno rosso del Mediterraneo possono sostituire con successo pesci tradizionali giapponesi come il tai (orata giapponese), l’hamachi (ricciola giapponese) o il maguro (tonno). Anche crostacei e molluschi italiani, come gli scampi, i gamberi rossi di Mazara del Vallo e le vongole veraci, possono aggiungere un tocco mediterraneo ai piatti di sushi

Ricciola 

La ricciola è uno dei pesci più pregiati del Mediterraneo, noto per la sua carne bianca e compatta, dal sapore delicato ma persistente. Ricca di grassi buoni, la ricciola ha una texture burrosa che ricorda molto l’Hamachi giapponese, un classico del sushi. Tuttavia, mentre l’Hamachi ha una dolcezza naturale, la ricciola si distingue per un leggero retrogusto marino che può essere bilanciato con agrumi come lo yuzu o il limone di Sorrento. 

Un risultato interessante si può ottenere con una leggera marinatura con olio extravergine d’oliva e sale marino, che aggiunge una nota mediterranea pur mantenendo uno stile vicino a quello del sushi tradizionale. Inoltre, la scottatura leggera (Aburi) può esaltare i grassi naturali, rendendo la ricciola una scelta perfetta per nigiri e sashimi

Utilizzo di pesci locali per reinterpretare il sushi fuori dal Giappone 

Gambero rosso di Mazara del Vallo 

Il gambero rosso di Mazara è una vera eccellenza italiana, caratterizzato da una dolcezza intensa e da una carne quasi cremosa. Rispetto all’Amaebi, il gambero dolce giapponese, il gambero rosso ha un sapore più complesso e una maggiore sapidità. Questo permette di utilizzarlo crudo, nel sushi, senza bisogno di particolari condimenti.  Per esaltarne il gusto, una tecnica interessante è quella di servire il gambero con una spruzzata di sake leggero per bilanciarne la dolcezza. Anche la testa del gambero può essere valorizzata, magari preparando un olio aromatico o un brodo leggero da utilizzare per piatti a corredo dell’esperienza a tavola. Inoltre, la cottura al vapore della testa, seguita da una leggera grigliatura, permette di ottenere anche una parte croccante e saporita. 

La sua versatilità lo rende perfetto anche per gunkan o temaki, dove la cremosità della polpa può essere valorizzata da alghe croccanti o erbe fresche. 

Tonno alalunga 

Il tonno Alalunga, noto anche come “tonno bianco”, ha una carne chiara e delicata, che lo rende un’alternativa interessante al Maguro giapponese. Pur non avendo la stessa intensità di sapore del tonno rosso, l’Alalunga è perfetto per preparazioni più leggere e per piatti estivi.  Una marinatura leggera con salsa di soia permette di esaltarne il gusto, mentre la scottatura Aburi può conferire complessità alle carni. L’utilizzo delle parti più grasse, come la ventresca, può avvicinarlo al sapore dell’Otoro, creando un parallelo interessante tra Mediterraneo e Giappone. 

Utilizzo di pesci locali per reinterpretare il sushi fuori dal Giappone 

Capasanta dell’Adriatico 

Le capesante dell’Adriatico sono un prodotto di grande qualità, paragonabile alle Hotate giapponesi. La loro dolcezza naturale e la consistenza carnosa le rendono ideali per il sushi e il sashimi. Una preparazione intrigante è la leggera scottatura, che caramellizza la superficie mantenendone il cuore crudo e morbido. 

In alternativa, si possono marinare leggermente in aceto di riso e mirin, per avvicinarsi alla tradizione giapponese, oppure servirle crude con un’emulsione di olio d’oliva e zenzero fresco. 

Valorizzare la materia prima locale rispettando la tecnica originale 

Reinterpretare il sushi utilizzando materie prime locali non significa perdere autenticità, ma piuttosto valorizzare i prodotti del territorio mantenendo vivo il legame con la tradizione giapponese. L’importante è rispettare le tecniche, la cura dei dettagli e la filosofia culinaria che rendono il sushi un’esperienza unica. Così facendo, è possibile creare un sushi che non solo celebri la cucina giapponese, ma che renda omaggio anche al ricco patrimonio gastronomico del Mediterraneo. 

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SAKE: IL GUSTO DELLA STORIA GIAPPONESE

Il sake nasce dalla lavorazione del riso grazie a un sofisticato processo produttivo di origini antichissime e unico nel suo genere, che dà luogo a una straordinaria e inconfondibile complessità di profumi e aromi.
E’ la bevanda fermentata che contiene la maggiore quantità di alcool al mondo ma è anche la più ricca di vari fattori nutritivi fra cui zuccheri, amminoacidi, acidi organici, vitamine.
Un vero tesoro nazionale.

Ricchezza..

Il sake è per i Giapponesi come il vino per gli Italiani. Esso accompagna la loro vita nei momenti più importanti, tutte le cerimonie religiose e gli eventi civili vengono suggellati bevendo un bicchiere di sake: il raggiungimento della maggiore età, il matrimonio (con il rito “san san kudo”), una vittoria elettorale, un successo aziendale, la vittoria di un torneo di sumo, un funerale…
Oggi esistono tante varietà di sake in Giappone quante di vino in Italia: la quantità prodotta e consumata si è ridotta ma la qualità si è elevata. Così il sake che giunge sulle tavole europee oggi è il meglio che si possa desiderare.
In una goccia di sake è contenuto il ricco frutto di secoli di storia e cultura straordinaria.

…E purezza

Al contrario del vino, il sake non contiene conservanti e, nel caso dei sake di qualità, nemmeno altri additivi. Per questo può collegarsi a questa preziosa bevanda un concetto: quello di purezza.
E purezza è data dalla raffinazione dell’ingrediente essenziale: il riso.
Il riso utilizzato per il sake (sakamai) è diverso da quello che si usa in cucina: ha un chicco più grande, in cui si concentrano in abbondanza amidi. Le varietà più utilizzate sono circa una decina.
Il grado di raffinazione, seimaibuai, è espresso attraverso la percentuale del chicco che viene utilizzata. Se il seimaibuai è almeno il 70% del peso totale del chicco e si è seguito un particolare disciplinare di produzione, al sake può essere attribuita una denominazione di qualità.

Il sake con queste caratteristiche di purezza ha aromi delicati ed eleganti.
La denominazione di qualità, a differenza di quella utilizzata in Italia per il vino, non è legata al territorio di provenienza: le zone più famose per il sake si trovano a nord di Tokyo, ma i produttori possono sperimentare e selezionare le materie prime migliori di ogni provincia così da ottenere un prodotto unico.
Un altro elemento importante è l’acqua: l’acqua considerata migliore o comunque più nota è quella ricca di fosforo e potassio, con una piccola quantità di magnesio e calcio, della sorgente Miyamizu vicino a Kobe.
La lavorazione, molto complessa, si basa sulla fermentazione di acqua, riso, spore del fungo Aspergillus orza, acido lattico e lieviti e dà luogo contemporaneamente alla saccarificazione e alla fermentazione.
Ciò permette al sake di ottenere un grado alcolico elevato: generalmente, il sake in vendita presenta una gradazione tra il 15% e il 16%.

Assaporare il Sake

Quando viene venduto, il sake è già al massimo della sua parabola qualitativa e va consumato al più presto per godere della sua freschezza: esso mantiene perfettamente integre le sue qualità per un periodo di un anno dalla produzione, sempre che sia conservato nel modo corretto (lontano dalla luce e alla temperatura massima di 20°).
Il sake va tradizionalmente servito e degustato in una piccola coppa di ceramica (tokkuri) e può essere bevuto a varie temperature: ad ognuna di esse, la bevanda assumerà un aroma e un gusto diverso.
Esistono inoltre sake più aromatici con sentori fruttati.
La valutazione del sake, come quella del vino, è basata sull’osservazione degli elementi visivi, olfattivi oltre che di gusto; un vantaggio, rispetto al vino, è che il sake è molto facile da abbinare ai cibi, anzi ne esalta i sapori: come disse un sommelier giapponese, vino e cibo sono due mani con le dita bene aperte che si incastrano fra loro solo quando l’abbinamento funziona, mentre sake e cibo sono una mano aperta che va ad avvolgere una mano chiusa a pugno.

Delle varietà di sake, delle occasioni e delle ritualità ad esso legate, dei modi di berlo e degli abbinamenti ideali avremo modo di parlare nei prossimi appuntamenti mensili.

Ma ora….brindiamo!

Federica Cecconi

I MILLE GUSTI DEL TE’

Dalle foglie del tè si ricava una bevanda ottima e ricchissima: molti sono i benefici che apporta, molte le varietà della sua pianta ed i tipi di tè che se ne traggono.
Al tè si riconoscono infatti proprietà toniche, dimagranti, antiossidanti e diuretiche; esso fornisce fluoro all’organismo ed ha azioni positive sull’apparato cardiovascolare.
I monaci buddhisti erano a conoscenza del grande valore di questa bevanda (si narra che fu il monaco Dengyo Daishi a portare il tè in Giappone) e preparavano infusi con foglie di tè per favorire la concentrazione durante le ore di meditazione. Alla sua pianta si attribuivano già nel IX secolo importanti proprietà terapeutiche quali quella di offrire sollievo alla fatica, allietare l’animo, rafforzare la volontà e guarire problemi di vista. Talvolta le sue foglie venivano somministrate per uso esterno, sotto forma di impacchi, per alleviare i dolori di origine reumatica.
Un elisir di lunga vita insomma. Soprattutto in Giappone, dove viene coltivato solo tè verde (varietà particolarmente ricca di principi attivi) e dove (maggiormente nelle zone di Uji, Shizuoka, Kagoshima, Nara, Fukuoka, Saitama, Nishio) è possibile ammirarne le coltivazioni organizzate in filari di cespugli disposti uno vicino all’altro a formare lunghe e suggestive onde verdi.

Il tè verde ha generalmente un sapore erbaceo che si abbina bene a molti cibi (verdure, cibi salati leggeri, cibi piccanti, formaggi saporiti, grano saraceno, pesce e ovviamente riso) ma esistono molteplici qualità di tè verde: dal più comune Bancha (infuso giallo limpido dal basso contenuto di teina, ottimo puro con dolci alle mandorle o a base di cioccolato) al raffinato Gyokuro (giallo chiaro, poco tanninico, ideale con pesce crudo e crostacei), dal leggero Hojicha (bruno perché ottenuto da foglie tostate, dal delicato sapore di noci) al Kokeicha, allo Yanagicha, al Kukicha e Tamaryokucha…fino all’antico Matcha e al famoso Sencha, che dà il nome a un fondamentale metodo di preparazione del tè.
Queste ultime due qualità di tè verde sono ricche di storia.
Il tè Matcha fa parte dei cosiddetti “tè d’ombra”, ovvero quei tè che i coltivatori giapponesi coltivano nell’oscurità (metodo ‘kabuse’): le foglie vengono essiccate e poi schiacciate con uno stampo di pietra fino a ridurle in una polvere finissima. Il tè Matcha è il tè utilizzato nella Cerimonia del Tè (Cha no yu): nella cerimonia del tè denso (“koicha”) viene utilizzato un tè proveniente dalle foglie più giovani delle piante di tè più vecchie della piantagione, mentre nella cerimonia del tè leggero (“usucha”) viene utilizzato un tè proveniente dalle foglie più vecchie delle piante più giovani, risultando al gusto leggermente più amaro del tè denso. La polvere per il tè denso può essere usata per preparare il tè leggero ma non viceversa. Per il tè leggero viene usata in proporzione il doppio dell’acqua utilizzata per la preparazione del tè denso, che risulta quindi più pastoso.

Il tè Sencha è invece il tè più prodotto e consumato in Giappone, con 3-4 raccolti l’anno principalmente in estate. Le sue foglie, dal colore verde brillante, subiscono una particolare lavorazione a vapore che ne stabilizza aroma, colore e contenuto chimico e ne evita l’ossidazione. Una volta asciugate e pressate le foglie vengono arrotolate e assumono la caratteristica forma di aghi sottili. Il tè offre un colore limpido e chiaro; l’aroma è fresco e pungente, il gusto è deciso e dolce. E’ un tè da gustare in ogni momento, anche come digestivo, poiché contiene poca teina: è ottimo con piatti a base di pesce, sushi, sashimi ma anche con dolci contenenti amido di riso e fagioli atzuki o preparazioni salate a base di alghe e salsa di soia.
Per preparare il tè secondo il metodo Sencha (alternativa meno formale alla Cerimonia del tè introdotta nel XVIII secolo) si usano un bollitore in ghisa, una teiera solitamente con manico (“Arare”) e tazze senza manico. La preparazione prevede varie fasi:

  • Si porta ad ebollizione l’acqua.
  • Si versa l’acqua nella teiera e si attende per una trentina di secondi.
  • Si distribuisce l’acqua nelle tazze mentre si getta la rimanenza.
  • Si mettono le foglie di tè nella teiera e si riempie la teiera con la stessa acqua delle tazze precedentemente riempite.
  • Si pone sulla teiera l’apposito coperchio e si lascia riposare l’infuso per 4 minuti.
  • Si dispongono le tazze una vicina all’altra.
  • Trascorso il tempo indicato, si prende la teiera (tenendo fermo il coperchio con il pollice) e si versa in ciascuna tazza un dito di liquido facendo piu’ giri di riempimento per consentire a tutti di avere la stessa concentrazione di infuso.

Con le stesse foglie è possibile ottenere una seconda infusione.
Ancora oggi possiamo rivivere il rito del tè con il Matcha o pasteggiare con il Sencha …ma vale la pena gustare ognuna delle tantissime varietà di questa bevanda che nascono da una prodigiosa fogliolina!

Federica Cecconi

LA SOIA SULLA TAVOLA GIAPPONESE

A differenza dell’Occidente, il Giappone ha una nobile tradizione culinaria che vede la soia protagonista di importanti piatti-base che cominciamo a conoscere da questo mese. Mentre in Europa infatti gran parte della soia viene utilizzata soprattutto per l’estrazione di olio o farina nella produzione di alimenti sostitutivi della carne tanto cari ai vegetariani, la cucina giapponese utilizza al meglio gli ingredienti che si ricavano dal seme o dal germoglio di questa pianta ricca di benefici.
Piatto tipico per eccellenza è la zuppa di miso (“misoshiru”).
Il miso è una miscela fermentata di semi di soia gialla, acqua, sale e riso oppure orzo: i fagioli vengono cotti e ad essi si aggiunge prima l’orzo o il riso e successivamente un particolare fungo, l’Aspergillus oryzae, in grado di intaccare gli amidi dei cereali e di trasformarli in zuccheri semplici. Nel procedimento tradizionale si trasferisce il composto in grandi tini, lo si pressa con appositi pesi e si porta avanti una lunga fermentazione in acqua salata (che dura dai 12 ai 24 mesi). Industrialmente, invece, la fermentazione si riduce anche a poche ore, così da rendere necessaria la pastorizzazione ed eventualmente l’aggiunta di additivi per la stabilizzazione del composto.
In Giappone il miso venne introdotto dai monaci buddisti intorno al settimo secolo. Il processo produttivo fu via via perfezionato e il miso divenne ben presto alimento molto importante nella dieta dei samurai. Nel corso dei secoli, nacquero diverse varianti di questo piatto, elaborate nelle varie province dell’Impero.

Nel misoshiru il miso viene mescolato con un brodo (“dashi”) a base di acqua, sale, porro e alga “konbu”. Il risultato è una gustosa pietanza, onnipresente sulle tavole del Sol Levante: viene servita a colazione, pranzo e cena ma è anche un’ottima entrée che, facilmente digeribile, prepara ad un pasto più o meno abbondante. La zuppa di miso è infatti consumata in qualsiasi occasione e, bisogna dire, in qualsiasi situazione climatica: va servita bollente anche nelle umide giornate estive!
Altro alimento tradizionale è il “nattō”, piatto a base di fagioli di soia fermentati. La fermentazione, prodotta da un particolare batterio (Bacillus subtilis), dà luogo ad una sostanza filamentosa molto consistente che si amalgama strettamente coi semi. A descrivere ciò, gli ideogrammi che rappresentano il nattō sono quelli simboleggianti “filo” e “fagiolo”.

La leggenda narra che il nattō nacque per caso. All’approssimarsi dell’esercito nemico, nell’epoca delle grandi battaglie intestine che caratterizzarono il lungo medioevo giapponese, i samurai del Kyushu dovettero smobilitare velocemente il loro campo. La soia, cibo dei cavalli, venne cotta rapidamente per poterla meglio conservare e avvolta in panni di paglia di riso. Dopo giorni di combattimento, quando ormai l’esercito aveva esaurito le provviste, i soldati si risolsero a nutrirsi di quella soia che nel frattempo, grazie ai batteri presenti nella paglia di riso, era diventata nattō.
Il nattō, grazie all’abbondanza di fermenti, ha un’importante funzione regolatrice sulla flora e sulle funzioni intestinali; ricco di proteine e fibre, migliora il sistema immunitario e aiuta a ridurre il colesterolo.
Questo piatto è gradevolissimo e si apprezza con una punta di senape e una goccia di salsa di soia. Può essere consumato anche con del riso (pure nei maki) o con uova (crude o fritte). Tuttavia non tutti i giapponesi amano questa pietanza dall’aspetto e dal sapore davvero particolare. Se si chiede infatti a un giapponese cui non piaccia il nattō che cosa ne pensi, con la tipica attenzione nipponica alla gentilezza, è probabile che risponda qualcosa come “kenko ni ii ne…” ossia ” fa bene alla salute…”!

Federica Cecconi

ALIMENTO E CONDIMENTO – LA SOIA PIÙ AMATA

Il tofu è probabilmente il piatto a base di soia più diffuso in Oriente ma è molto amato anche in Occidente. Fu introdotto in Giappone verso la fine del VII secolo, durante il periodo Nara, e si affermò in concomitanza con il Buddismo che sosteneva l’importanza di una dieta vegetariana. In effetti il tofu, privo di colesterolo e di grassi saturi ma ricco di proteine, calcio e fosforo è un ottimo sostituto di carne e uova.
Il “formaggio di soia” è il risultato della cagliatura del latte di soia (che si ottiene mediante l’ammollo, la frantumazione, la bollitura e la successiva essiccazione dei fagioli di soia) per mezzo di una polvere (nigari) composta di cloruro di magnesio, estratto dall’acqua marina evaporata dopo la rimozione del cloruro di sodio. Il caglio viene disciolto in acqua e mescolato nel latte di soia portato ad ebollizione, finché l’impasto non coagula in una forma morbida.

A seconda della quantità d’acqua che si estrae dalla cagliata, il tofu può risultare più liscio e delicato (kinugoshi) o più solido (momendofu): quest’ultimo, asciugato utilizzando un apposito tessuto filtrante e poi pressato nella tipica forma di parallelepipedo, viene solitamente tagliato a cubetti.
L’utilizzo di questi panetti di tofu in cucina è infinito: alla piastra, fritto, stufato, in insalata… Apporta ad ogni piatto non solo il proprio delicatissimo sapore, ma sprattutto un gioco di consistenze che è difficile immaginare utilizzando altri ingerdienti occidentali. Ecco perchè viene utilizzato spesso in preparazioni giapponesi molto comuni come la zuppa di miso: la cucina giapponese è infatti molto attenta agli equilibri di sapore, colore e consistenza di ogni piatto.

La versione più morbida, quasi cremosa, detta silken tofu, è anche molto adatta a sostituire panna o latte in frullati, dolci o vellutate di verdura. Esiste poi anche una varietà di tofu secco, pressato in fette lunghe e sottilissime, che viene cotto a fuoco lento in salsa di soia oppure viene sbriciolato e fritto nella tradizionale ricetta “aburage”. L’aburage si abbina anche al sushi (inarizushi) e alle verdure (ganmodoki), ed i giapponesi lo consumano molto spesso in una zuppa di udon detta kitsune udon”, cioè “gli udon della volpe”, nome legato ad un’antica leggenda che vuole le volpi molto golose di tofu fritto…
Il tofu può essere inoltre trovato in commercio in salamoia o aromatizzato. Il tofu in salamoia è usato comunemente in piccola quantità con verdure stufate tipo gli spinaci d’acqua e spesso viene direttamente usato come condimento nel riso.
Poco diffusi in Italia ma grandemente apprezzati in Giappone sono invece i tofu aromatizzati con ingredienti dolci, di consistenza generalmente più morbida, tipo il tofu all’arachide (jimami-dōfu), il tofu alla mandorla, il tofu al mango o il tofu al cocco, ottimi come dessert a sè, magari accompagnati da frutta o sciroppi, o come ingredienti per la preparazione di dolci più comlpessi. Per produrre questo tipo di tofu vengono miscelate nel latte di soia, prima della coagulazione, zucchero, frutta acida e aromatizzanti.
In molti piatti salati il tofu, come dicevamo derivato dalla soia, avendo un sapore aabbastanza eneutro vienespesso aromatizzato con salsa di soia, condimento diffusissimo ed efficacissimo nell’esaltare i sapori. Un esempio tipico del perfetto matrimonio tra questi due prodotti dall’origine in comune è l’hiyayakko, una praparazione estiva in cui il tofu viene servito freddissimo contornato di vari condimenti, comen zenzero fresco grattugiato, cipolle verdi e, appunto, salsa di soia.

La salsa di soia (shoyu), prodotta dalla fermentazione della soia e del grano, fu introdotta in Giappone alla fine del VII secolo ad opera dei monaci buddhisti, che all’interno della loro dieta rigorosamente vegetariana la utilizzavano per conferire ai cibi un aroma simile a quello della carne. Tra le qualità nutritive della salsa spiccano proprietà digestive e un contenuto di antiossidanti dieci volte maggiore rispetto a quello del vino rosso.
La salsa viene preparata cuocendo al vapore la soia, mescolandola a grano tostato, sale e fermenti e facendo riposare il composto per 18/36 mesi in botti di cedro. Infine si passa alla pressatura, pastorizzazione e filtrazione del composto. Esistono molte varietà di salse, a seconda delle proporzioni di soia e grano utilizzati o del tempo di fermentazione. La salsa giapponese più antica e famosa è la Tamari, prodotta principalmente nella regione del Chubu utilizzando una maggiore quantità di soia rispetto al grano.


Il risultato è comunque un liquido di colore brunastro e dal sapore terroso e salato, in parte dovuto al contenuto naturale di glutammato monosodico, ma così unico da dar luogo ad una definizione apposita di gusto: “umami”, che si va ad aggiungere alla classica ripartizione occidentale dei sapori in salato, dolce, aspro ed amaro come una quinta forma di gusto.
Utilizzata sia per aromatizzare il cibo durante la cottura sia servita a parte per essere aggiunta al cibo come condimento a sè, la salsa soia riesce ad integrarsi e completare in modo armonioso ed originali molti altri condimenti come aceto, zenzero, olio e sesamo, mentre è ingrediente base di molte altre salse fondamentali della cucina giapponese come la salsa teriyaki per verdure e carne alla piastra, la kabayaki, per pesce ed in particolare per l’anguilla, o la tentsuyu in cui si intinge il tenpura.
Insomma…la soia, che sia condimento o cibo, è ottima in tutte le sue forme!

Federica Cecconi

LA PREZIOSA SOIA

Un alimento base della cucina giapponese è la soia: la sua importanza è superata solo dal riso.
E come il riso ha un grande valore nutritivo cui anche in Occidente negli ultimi decenni viene sempre più attribuita rilevanza da tutti coloro che, oltre ad amare il gusto inconfondibile che questo ingrediente dà ai piatti, tengono alla propria salute!
La pianta di soia è invece nota in Oriente da molto tempo…le prime notizie si leggono in alcuni scritti cinesi del 3000 circa a.C. in cui si parla di un “enorme fagiolo” (ta-teou). Secondo alcuni studiosi però la soia era conosciuta ancor prima poichè se ne ritrova il riferimento in antichissime leggende. Un imperatore inserì addirittura la soia tra le cinque piante definite sacre per la loro importanza (riso, frumento, orzo e miglio le altre).
In Occidente fu introdotta nel XVIII secolo in Francia e nel XIX in Italia; la prima esportazione vera a propria avvenne però nel 1804, quando un veliero americano di rientro negli Stati Uniti ne trasportò un carico importante. La coltivazione per scopi commerciali risale al 1929 ma è dopo la seconda guerra mondiale che si ha la definitiva diffusione e un aumento generalizzato di consumo.

Tante virtù

La soia ha infatti il vantaggio di poter essere coltivata in tutti i climi temperati e subtropicali. I risultati migliori si ottengono dove l’estate è moderatamente calda, con temperature medie comprese tra i 20 °C e i 30 °C, ma temperature superiori vengono in ogni caso ben tollerate.
Il Glycine max, da non confondere con la soia selvatica (Glycine soja), è una pianta erbacea botanicamente appartenente alla famiglia delle leguminose, con baccelli simili a quelli del fagiolo. E’ una pianta annuale, con altezza minima di 20 centimetri e massima di 2 metri, con tipica peluria brunastra che ne ricopre baccello, fusto e foglie. Le radici, analogamente ad altre leguminose, ospitano un batterio simbionte, Bradyrhizobium japonicum, che opera la fissazione dell’azoto atmosferico, processo attraverso cui l’azoto dell’atmosfera viene convertito in composti essenziali per la crescita della pianta stessa. Le foglie sono trifogliate, lunghe dai 6 ai 15 cm e larghe 2/7 cm. I fiori sono bianchi, rosa o viola, riuniti in piccoli grappoli. I frutti sono i baccelli, lunghi 3/8 cm e contenenti solitamente da 2 a 4 semi dal diametro di 5/11 millimetri.
Si può dire che esistano due varietà di soia, in base ai semi che la pianta dà:

  • soia gialla: la più commercializzata
  • soia nera: quasi sconosciuta in Occidente, coltivata esclusivamente in Giappone.

La composizione dei semi di soia, di qualsiasi colore essi siano, differisce nettamente da quella degli altri legumi per il suo elevatissimo contenuto proteico.
Ma non solo: nel seme della soia sono racchiusi moltissimi elementi benefici per il nostro organismo. Per 100 grammi di soia abbiamo infatti, oltre a 40/50g di proteine, da 12 a 25 g di carboidrati, 10 g di fibre e 18/20 g di grassi polinsaturi essenziali, indispensabili veicoli delle vitamine liposolubili (A, D, E, K, F). La soia è inoltre ricca di vitamina A, E, B12, sali minerali, calcio, fosforo, potassio, magnesio, ferro, zinco…contiene poi la più alta concentrazione di aminoacidi essenziali e di estrogeni vegetali (isoflavoni).
Gli isoflavoni regolano naturalmente la produzione ormonale corporea bloccando anche la ricezione di estrogeni pericolosi e cancerogeni di origine chimica: aiutano così a proteggere dal rischio di tumori. Ancora, la soia è considerata un valido strumento per limitare il rischio di insorgenza di patologie cardiache, renali (migliora la funzione di filtro propria dei reni), muscolari, ossee e nervose.
Infine è ben noto l’effetto della lecitina, di cui la soia è ricca, sulla colesterolemia, in quanto aumenta il colesterolo HDL (cosiddetto “buono”) contrastando quindi gli effetti del colesterolo LDL (“cattivo”).

Insomma questa pianta è davvero una preziosa risorsa per la salute del nostro corpo e il suo seme è un ricco concentrato di sostanze benefiche e nutrienti, tanto che sono in commercio anche integratori ricostituenti a base di soia.
Non dimentichiamo però che il Glycine max è anche e soprattutto un interessante protagonista dell’arte culinaria giapponese: esso è perfetto nei molteplici usi e nelle tante squisite ricette di una tradizione millenaria che andremo presto a conoscere!

Federica Cecconi

BREVI CENNI SULLA VARIETÀ DEL FUNGO GIAPPONESE

Fungo in giapponese si dice kinoko’ (きのこ), letteralmente ‘figlio degli alberi’, in quanto i funghi sono soliti crescere proprio ai loro piedi.
Di seguito potete trovare alcuni dei funghi più popolari in Giappone.

Shiitake (椎茸Lentinula edodes), letteralmente significa “fungo del faggio”, in quanto è pressochè sotto lo shii, albero della famiglia dei faggi, che esso viene coltivato.
E’ di gran lunga il fungo pù popolare in Giappone, originario della Cina e coltivato da più di 1000 anni. E’ caratterizzato da un profumo unico e viene utilizzato nella stragrande maggioranza dei piatti tradizionali della cucina nipponica, nella zuppa di miso, nei brodi (dashi) vegetariani, nel tempura, nei nabe, ( piatto giapponese a base di carne e verdure cotte in una apposita casseruola, detta appunto nabe, posta su una piastra o un fornelletto direttamente sul tavolo). Da noi si trovano soltanto essiccati e vanno reidratati in acqua tiepida prima di utilizzarli. Il loro gambo, molto duro, non viene usato. Lo shiitake è da tempo studiato nelle università di tutto il mondo per la sua efficacia nel trattamento di alcuni tumori, nella riduzione dei livelli di colesterolo nel sangue e perché stimolante il sistema immunitario.

Maitake (舞茸, Grifola frondosa), che vuol dire “fungo della danza”, probabilmente per le danze di gioia che accompagnavano il ritrovamento di un buon quantitativo. E’ un fungo perenne che cresce in raggruppamenti, spesso massicci, generalmente ai piedi delle querce. Si usa solitamente nel tempura

Shimeji (しめじ), cresce a grappoli ai piedi degli alberi di pino, è un fungo molto comune in Giappone e viene utilizzato spesso nella cucina giapponese, nella zuppa di miso, nel nabe, nel tempura, pur se di sapore estremamente delicato. Probabilmente appartiene alla stessa famiglia dei nostri chiodini.

Enokitake (えのき茸, Flammulina populicola), lunghi e di colore bianco, crescono a mazzetti prevalentemente sui ceppi di una pianta detta appunto enoki e vengono utilizzati nei piatti di nabe. Ne esiste anche una varietà selvatica di colore marrone, detta nameko.

Matsutake (松茸 Tricholoma matsutake) è il re dei funghi giapponesi, un po’ come il nostro fungo porcino. Cresce in simbiosi con le radici di specie limitate di alberi e viene comunemente collegato al pino rosso giapponese (matsu) da cui prende il nome.
Questo fungo è particolarmente raro poiché cresce sotto la base di vecchi pini e solo una volta nello stesso posto. Ecco spiegato il suo alto valore economico che lo rendono unico e speciale. Ha un aroma speziato, simile alla cannella, che non svanisce con la cottura, e viene utilizzato in tutti i piatti, divenendone un vero e proprio valore aggiunto. Regalare questo tipo di fungo è considerato un gesto unico e molto speciale in Giappone.

IL GIAPPONE ED IL FAVOLOSO MONDO DELLE ALGHE

La cucina giapponese poggia essenzialmente su princìpi alimentari semplici e basilari e su piatti poco elaborati in termini di gusto e sapori: pochi intingoli, niente “pasticci” o ripieni complicati; in una parola essa è sappari, ovvero leggera, pulita, semplice: quasi una “cucina povera”. Basata infatti principalmente sui prodotti della terra e del mare utilizza tutto, ma proprio tutto di ciò che pesca o coltiva, anche ciò che in altre tradizioni gastronomiche viene scartato.
Questo mese esploriamo ciò che il mare produce ovunque in quantità ma che solo pochissimi popoli, perlopiù costieri e comunque limitatamente a pochissime regioni, utilizzano come alimenti: stiamo parlando delle alghe.
In Occidente le alghe sono da tempo conosciute nella talassoterapia per i loro effetti benefici ma fino a poco tempo fa poche regioni, ad esempio in Italia Liguria, Campania, Alto Adriatico, Sicilia e Sardegna, ne facevano uso in cucina. Dobbiamo perciò alla diffusione dei ristoranti giapponesi il merito di aver portato questi vegetali marini sulle nostre tavole.
Le loro qualità nutrizionali sono molteplici: ricche infatti di antiossidanti, di fibre e proteine, se assunte anche in piccole quantità tutti i giorni, apportano sostanze nutritive fondamentali per l’organismo. I sali minerali (calcio, iodio, ferro) e le vitamine (betacarotene, vitamine B,C,E) migliorano inoltre la resistenza alla fatica: insomma le alghe sono dei grandi ed efficaci ricostituenti naturali, e combattono malattie e malesseri quali anemia ed astenia…inoltre contengono pochissime calorie, ideali quindi nei regimi dietetici ipocalorici.
Ma andiamo a conoscerle meglio:

Alga nori: il termine in origine si rifaceva alle alghe in senso generico; si parla di alga “nori” sin dall’VIII secolo, quando nel codice legislativo Taiho del 701 veniva citato come materiale per il pagamento delle tasse. Intorno al X secolo cenni sull’alga “nori” in letteratura fanno comprendere che questa aveva fatto finalmente la sua apparizione tra gli alimenti comuni.Le alghe nori vengono prodotte attraverso un sistema molto avanzato di idrocultura. Esse vengono coltivate in mare attaccate a delle reti sospese sulla superficie dell’acqua, tecnica questa che permette ai contadini di continuare a svolgere il proprio lavoro dalle imbarcazioni. La crescita richiede circa 45 giorni, ed ogni singola semina può portare anche a raccolti multipli.La lavorazione del prodotto grezzo avviene attraverso macchinari altamente specializzati che hanno perfettamente riprodotto, automatizzandolo, le fasi di lavorazione manuale: infatti l’alga nori, originariamente prodotta sotto forma di pasta molle, oggi è venduta essiccata in fogli rettangolari (metodo di produzione inventato nel quartiere di Asakusa quando Tokyo si chiamava ancora Edo). Comunemente usata come involucro per il sushi e gli onigiri, aromatizza anche pasta e zuppe. Grazie al suo contenuto di provitamina A, aiuta la ricrescita di unghie e capelli, e facilita la riduzione dei grassi e del colesterolo. Fonte naturale di iodio, aiuta la funzionalità tiroidea. Unico accorgimento a non abusarne per coloro che seguono diete a basso contenuto di sodio o a chi soffre di ipertensione o disturbi renali.

Alga wakame: originaria anch’essa dei mari giapponesi, sin dagli anni ’80 viene però coltivata pure sulle coste settentrionali della Francia, in Bretagna, in seguito al suo sempre più frequente utilizzo nella cosmesi.Nasce e cresce in acque agitate e turbolente e viene raccolta in primavera, quando i pescatori in barca, muniti di rastrello, staccano completamente la radice delle piante dalla sua roccia. Essa viene poi imballata dopo l’essiccazione: così essiccata può essere esportata, mentre per essere venduta fresca sui mercati nazionali, viene leggermente scottata (questo per prevenire la formazione di dannosi microbatteri). Si mangia soprattutto nelle insalate: la wakame saraada è uno degli antipasti più semplici e gustosi dei menu giapponesi.

Alga kombu: se ne trovano più di cento tipologie differenti in Giappone, ma il centro più importante in assoluto per la produzione di alghe kombu è la città di Osaka. La qualità migliore è la Hidaka-kombu, dal nome della località produttrice. Qui le alghe crescono in vere e proprie “foreste sottomarine” dove raggiungono anche un’altezza di 10 metri. In estate vengono raccolte, appena terminato il loro ciclo di maturazione, con l’ausilio di lame affilatissime, e poi lasciate sugli scogli ad essiccare per qualche settimana. L’alga kombu si aggiunge tradizionalmente al brodo dashi ma si può anche sgranocchiare, leggermente salata, in bastoncini.

Alga hijiki: cresce in profondità maggiori rispetto alle altre alghe ed i suoi poteri rigeneranti sono eccezionali. Le sue piante a cespuglio vengono raccolte tra gennaio e maggio, quindi fatte bollire a lungo per renderle tenere e quindi fatte essiccare.Prima di cuocerla, l’alga hijiki va fatta nuovamente ammorbidire, e, poiché lega molto bene con l’olio, si mangia di solito saltata in padella unita ad altri vegetali, come carote o cipolle.

Alga agar agar o kanten (寒天): l’alga kanten è un’alga rossa polisaccaride usata come addensante naturale, ha un alto contenuto di mucillagini e contiene una sostanza, detta carrogenina, ricca di sali minerali, che è praticamente una gelatina. E’ usata in cucina nell’arcipelago del Sol Levante da circa 350 anni ed è conosciuta con il nome di kanten, che significa “clima freddo”. Narra una leggenda infatti che nel 1658 un locandiere, Tarazaemon Minoya, avesse preparato un dessert a base di alghe per i suoi ospiti e che avesse gettato via poi quello avanzato. Il freddo notturno lo congelò, ma il sole del mattino lo sciolse nuovamente, per poi quindi seccarlo di nuovo.
Minoya raccolse il residuo, lo bollì nuovamente e, quando il composto gelatinoso si fu raffreddato, si rese conto, assaggiandolo, che era di qualità nettamente superiore al precedente.
In una notte Minoya aveva scoperto così la tecnica che poi si sarebbe sviluppata a livello industriale nella produzione dell’agar, previo quindi congelamento e successiva essiccazione. L’agar ha la peculiarità tutta sua di essere insolubile a freddo, ma di sciogliersi nell’acqua in ebollizione: la gelatina che se ne ricava, a differenza dell’amido, è termoreversibile, ed inoltre a differenza della comune colla di pesce, resiste alle alte temperature, così da poterla utilizzare, allo stato solido in cubetti, anche nei piatti caldi. Lo yokan, un dolce giapponese a base di fagioli di soia e spesso aromatizzato al tè verde oppure alle castagne, è un esempio di alimento reso solido dalla consistenza gelatinosa dell’alga kanten (l’aspetto è simile alle nostre cotognate, ma meno zuccherine: se ne consiglia vivamente l’assaggio!)

E PER FINIRE…
Parafrasando un detto nostrano secondo cui del “maiale non si butta via niente”, in Giappone del pesce, alimento per antonomasia della sua cucina, non viene sprecato nulla.
Ed ecco che spesso, accompagnato da una bella birra ghiacciata, si può gustare come aperitivo, un ottimo hone senbei, snack croccante che si prepara con le lische di pesce.
Quando arrostiamo o friggiamo il pesce mai infatti buttare via la lisca, la testa, o la pelle: queste possono essere arrostite a parte e, ricche come sono di calcio e fosforo, diventare particolarmente consigliate ed appetibili per i più anziani e per i bambini. Così preparate se ne trovano anche in vendita in Giappone, naturalmente: la consistenza è però, come ovvio, differente a seconda del tipo di pesce, quindi quella dell’anguilla risulterà particolarmente dura alla masticazione, a differenza di quella del dentice, più morbida, attenzione quindi, nella scelta, onde non danneggiare una dentatura maggiormente fragile…
Buon appetito!

Loredana Marmorale

Immagini: japanesefoodreport.com1822.ltroboppy.netkurakonusa.comcookingwithjapanesegreentea.blogspot.comunagi-kawatoyo.comnaturalmentegift.com