CORSO DI SUSHI 5: CONDIRE ED ACCOMPAGNARE IL SUSHI

Quando si ordina un piatto di sushi al ristorante ci si vede portare, solitamente, anche una ciotolina di salsa di soia, il gari, fettine di zenzero sott’aceto e una pallina di wasabi, una pasta di rafano verde giapponese particolarmente piccante. Ognuno di questi ingredienti ha una sua specifica funzione nell’accompagnare ed aromatizzare il sushi, anche se ogni bocconcino, espressione di un diverso abbinamento tra riso e pesce, ha in realtà differenti livelli di completamento.
Alcuni tipi di sushi, ad esempio, non hanno bisogno di essere insaporiti con la salsa di soia, come quelli che prevedono ingredienti già cucinati tipo il gronco (unagi), alcune conchiglie o le seppie cotte. Anche i dadini di frittata tamagoyaki, o i kanpyo maki, rotolini che contengono strisce di una verdura essiccata simile alla zucca, di solito non vengono intinti nella salsa di soia, così come in generale gli involtini grossi futo-maki ed in specifico i date-maki, futo-maki avvolti non da alga nori ma da frittata, oppure i sushi “pressati”, ovvero compattati non a mano ma servendosi di una scatoletta di legno, come i boo-sushi e gli hako-sushi.

Infatti di solito i futo-maki ed i sushi pressati sono specialità che caratterizzano il menù tipico di ogni ristorante, come esaltazione dello stile personale dello chef itamae, e che dunque andrebbero degustate “in purezza”. Lo stesso vale per quei nigiri e quei maki che lo chef prepara appositamente per il cliente seduto di fronte a lui al banco del sushi e che spesso condisce personalmente, con sale, limone, salsa di soja, zenzero grattugiato od altre salse di sua invenzione, prima di porgere il bocconcino al cliente. In caso di dubbio comunque lo chef apprezzerà la richiesta di chiarimenti e di istruzioni su come condire e consumare il sushi, ritenendola un forma di cortesia, interesse e rispetto da parte de cliente.

Altro discorso vale per quei sushi che ben accolgono l’aroma della salsa di soia ma che per la loro forma o decorazione risulta difficile intingere nella ciotolina della salsa. E’ il caso dei gunkan-maki, i bocconcini di riso avvolti in alga nori il cui ripieno viene adagiato in bella vista sopra il riso, oppure per tutti quei nigiri sushi il cui pesce viene decorato appoggiandovi sopra un pochino di zenzero grattugiato, di cipollotto tritato e così via. In questi casi ci si può servire del gari, lo zenzero sott’aceto sempre presente in un piatto di sushi per “pulire la bocca” tra un boccone e l’altro dall’aroma del pesce precedente. Una fettina di gari intinta nella salsa di soia e poi spennellata sul bocconcino di sushi permette di condirlo con la giusta dose di salsa senza comprometterne la costruzione o rovinarne il decoro.

La quantità di wasabi corretta per ogni tipo di sushi è già calibrata da ogni bravo itamae e dunque teoricamente già contenuta in ogni bocconcino nella dose più adeguata. Ma si sa che in Occidente l’apprezzamento di questo aroma particolarmente pungente va a gusto, per questo si tende ad usarne davvero pochissimo in fase di preparazione ed a servire una piccola quantità di wasabi a parte, in modo che ognuno si regoli a piacere. Quando si diventa frequentatori abituali l’itamae conosce le preferenze di ciascun cliente e non ha più bisogno di questo accorgimento. Se si preferisce comunque dosare personalmente il wasabi per il proprio sushi, l’ideale è prenderne una modica quantità in punta di bacchette e scioglierlo nella ciotolina di salsa di soia.

Il tè verde viene spesso servito in accompagnamento al sushi con lo stesso scopo dello zenzero marinato, quello di contribuire ad eliminare dalla bocca il sapore del pesce precedenteprima di assaggiare quello successivo. Ma per questo stesso motivo, ovvero per lasciare il palato senza alcun retrogusto, l’aroma del tè non deve essere troppo carico; tra tutti si preferisce quindi servire il bancha, una tipologia di tè relativamente poco profumata e l’utilizzo di tè in polvere invece che in foglie permette di controllare l’intensità dell’infusione con maggiore precisione.

Annalena De Bortoli

CORSO DI SUSHI – LEZIONE 4: LA STAGIONALITÀ DEL PESCE

Nel passato sulle nostre tavole c’era a disposizione praticamente solo ciò che la natura produceva in quel periodo e ciò che l’uomo si era ingegnato per conservare da una stagione all’altra. Con l’avvento di serre, frigoriferi, congelatori e trasporti veloci il rapporto del cibo con la stagionalità della prodzione si è andata perdendo, uniformando insieme alla disponibilità anche i sapori degli alimenti. Fortunatamente per quanto riguarda frutta e verdura sta tornando l’attenzione verso un consumo corretto e consapevole, ma in Italia manca ancora la coscienza della stagionalità di altri importantissimi alimenti, uno per tutti il pesce. Nella cucina giapponese, invece, non è affatto così…
In Giappone la stagionalità dei prodotti ittici è sempre stata fondamentale. Ovviamente la grande distribuzione tende ad omogeneizzare l’offerta anche lì, ma un cuoco od una brava massaia giapponesi sanno perfettamente cosa è meglio acquistare e cucinare in un certo periodo rispetto ad un altro.

Per la scelta del pesce (ma anche delle alghe) la stagionalità si riferisce al periodo che vede una naturale crescita di una particolare specie e di conseguenza una pesca o una raccolta più abbondante. Ciò implica ovviamente che quello specifico prodotto sia anche più saporito e più ricco di principi nutritivi e pure che per ogni stagione si sviluppi una particolare cultura gastronomica, con tecniche di preparazione, ingredienti, aromi ed abbinamenti specifici.
Il mondo del sushi è considerato una forma di cultura del cibo che “approfitta delle stagioni” e se nei ristoranti giapponesi in Italia siamo abituati ad avere più o meno sempre a disposizione le stesse qualità di pesce e purtoppo ciò deriva dalla cattiva abitudine, tutta occidentale, di essere più attenti alla nostra golosità personale che alla stagionalità degli ingredienti che ci ingolosiscono. Basterebbe chiedere consiglio all’itamae e ci si aprirebbe un mondo di impreviste delizie…

Ovviamente alcuni prodotti ittici sono abbondanti per lunghi periodi e la stagionalità di ogni specie varia anche in base alla località; inoltre le stagioni di pesca giapponesi non corrispondono esattamente a quelle italiane. E’ comunque interessante a livello generale conoscere le regole che spingono uno chef giapponese a proporre più volentieri, in base alla propria cultura specifica, certi pesci in certi momenti dell’anno.
Tonno e salmone, i più apprezzati dalla clientela italiana, sono mediamente di buona qualità tutto l’anno, mentre per gustare sushi o sashimi con vongole di varie dimensioni, sgombri, platesse, sogliole, seppie, uova di salmone, ricci di mare o canocchie meglio orientarsi sui mesi più freddi della primavera.

Con l’avanzare del clima estivo arrivano anguilla e gronco, sauro e palamita, pesce volante e capesante, branzino e ricciola.
In autunno sono migliori calamari, ostriche, sardine, polpi ed alcuni gamberi più grossi.
Con il freddo invernale infine si apprezzano al loro meglio orata, granchi, dentice e pure il fegato della rana pescatrice.

Molte anche le specie autoctone giapponesi che qui in Italia non sono reperibili (tipo il famosissimo fugu, per la cronaca tipicamente invernale), ma ogni itamae che si rispetti ha individuato prodotti locali italiani da poter valorizzare nella propria selezione personale di sushi. Chiedere dunque allo chef di sushi notizie sul pesce di stagione che potrebbe proporci significa gratificare la sua professionalità ed avere insieme la certezza di essere serviti come fossimo degli intenditori, con la probabilità di assaggiare magari qualche specialità che non sempre viene proposta alla clientela italiana.
Un’ultima curiosità: lontano dal Giappone infine è difficile reperire alghe che non siano essiccate, ma gli chef conoscono il periodo in cui sono state raccolte per avere il prodotto migliore, dunque si orientano su alghe wakame colte in primavera, alghe kombu in autunno, alghe nori ed hijiki in inverno.

Annalena De Bortoli

CORSO DI SUSHI, LEZIONE 3: IL SUSHI A TAVOLA

Le regole di comportamento a tavola in Giappone differiscono leggermente da quelle occidentali: alcune abitudini normali per i Giapponesi per noi appaiono strane, ad esempio sorbire rumorosamente una zuppa o pescare con le bacchette gli spaghetti dal brodo, e viceversa alcuni gesti che noi possiamo compiere sopra pensiero risultano scortesie agli occhi nipponici, come indicare qualcuno con le bacchette o lasciarle infilzate nel cibo dentro una ciotola.
Ogni cultura ha il suo specifico galateo, inteso come una serie di norme di buona educazione che regolano il comportamento sociale a tavola e simboleggiano il rispetto del rapporto del commensale con il cibo. Dopo aver visto come nasce il sushi e quanto impegno e perizia occorrono per prepararlo a regola d’arte, ci occupiamo oggi di quelle piccole regole del galateo nipponico che permettono di rapportarsi al sushi nel modo migliore, per poterlo gustare al suo massimo senza fare brutte figure con eventuali commensali giapponesi.

Come prima cosa molto si chiedono se, quando si ha poca confidenza con le bacchette (in giapponese hashi), se il sushi si possa mangiare anche con le mani o con posate occidentali. In effetti in origine i bocconcini di pesce e riso venivano consumati in piedi ai banconi delle yatai, le bancarelle di strada, e portati alla bocca con le mani. Con il passare del tempo si è presa poi l’abitudine di consumare il sushi seduti, sia quando si sta al bancone del cuoco che quando ci si accomoda ai tavoli di un ristorante, ed anche ad usare le bacchette. Entrambi i metodi dunque sono corretti e servirsi di sushi con le mani è uso comune anche alle tavole formali.
Quello che non dovrebbe mai apparire invece su una tavola giapponese è il coltello, considerato un utensile da cucina derivato da un’arma di offesa e dunque assolutamente estraneo ad un momento di piacere ed armonia come quello della condivisione di un pasto. Dita e bacchette hanno in comune il concetto di “raccogliere” il cibo con grande semplicità e rispetto, senza pungerlo o “ferirlo” come accade invece se si usano forchetta e coltello occidentali. Ecco perché sarebbe meglio, per chi non si sente sufficientemente sicuro per maneggiare il sushi con le bacchette, portarlo alla bocca con le mani invece di utilizzare le nostre posate.

Se si usano le mani meglio lavarle prima accuratamente e tenere sempre accanto l’oshibori, la pezzuola umida che permette di pulirsi frequentemente la punta delle dita. I bocconcini di riso vanno raccolti delicatamente con pollice indice e medio della mano (meglio quella destra) oppure con le bacchette ruotandoli leggermente in modo da poterli intingere nella salsa di soia dalla parte del pesce. Vanno anche portati alla bocca sempre con la parte del pesce verso il basso, in modo che la lingua incontri per prima il sapore del pesce. Il fatto che le dita o le bacchette premano il boccone non sui lati scoperti ma da sopra e da sotto il pesce evita anche di rompere o sbriciolare la pallina di riso.

Non bisogna esagerare con la salsa di soia, che deve completare ma non sovrastare il sapore del sushi. Sia i nigiri, i bocconcini di riso con il pesce sopra, che i maki, i rotolini di riso farciti, vanno intinti nella soia solo in un angolino e vanno poi mangiati in un boccone unico. In Giappone non è infatti maleducazione avere la bocca visibilmente piena, basta masticare a labbra chiuse, eventualmente per le donne coprendo leggermente la bocca con la mano. Ma di come condire ed accompagnare il sushi parleremo la prossima volta, per ora ricordiamo solo che un altro gesto da evitare è il separare il pesce dal riso: sarebbe una vera scortesia nei confronti dello chef, che ha impiegato tutta la sua perizia nel fonderne consistenze ed aromi in un boccone unico.

Annalena De Bortoli

CORSO DI SUSHI…2 – L’ITAMAE: UN ARTIGIANO CON L’ARTE NELLE MANI

Dopo aver visto nell’articolo precedente come è nato il sushi in Giappone, vediamo ora cosa significa saperlo preparare. Mentre una persona che cucina per professione viene solitamente definito un cuoco od uno chef, nel mondo del sushi l’artefice di quel meraviglioso cibo è chiamato itamae, ovvero “artigiano del sushi”.
Gli itamae devono completare un preciso corso di studi per specializzarsi in tecniche culinarie molto specifiche e ci vogliono parecchi anni perché tali tecniche siamo padroneggiate con estrema competenza. Queste tecniche hanno però tutte una caratteristica comune: formare una pallina con pesce e riso condito, pressarli in uno stampo di legno o avvolgerli con una stuoietta di bambù, infatti, sono tutti gesti che vanno eseguiti rigorosamente a mano e ciò richiede una perizia ed un’esperienza proprio tipiche del lavoro artigianale.
Molto probabilmente la preparazione del sushi è il più classico esempio di cucina basata espressamente sull’utilizzo delle mani, tanto che per un maestro di sushi o, come è meglio dire, per un artigiano del sushi, le mani sono un vero e proprio strumento del mestiere, dunque un prezioso patrimonio da preservare con attenzione. Per questo motivo un itamae se ne prende cura ogni giorno ed è particolarmente scrupoloso per quanto riguarda la loro igiene, dato che da essa dipendono sia la sicurezza di ciò che viene servito al cliente che il sapore del cibo manipolato.

Ogni itamae sa sviluppare non solo un proprio stile personale nelle forme e nei sapori che caratterizzano il suo sushi, a partire dalla cottura e dal condimento dello shari, il riso per sushi. Ma acquisisce con il tempo anche una gestualità specifica che lo contraddistingue e che, soprattutto in Giappone, risulta una delle componenti che i veri intenditori sanno apprezzare e che costituiscono motivo di scelta quando si tratta di decidere a che itamae affidarsi per la propria cena.
Ed ecco una carrellata dei più conosciuti tra i gesti tipici di ogni buon itamae:

Il wasabi (pronuncia “vasabi”) è un condimento sotto forma di pasta verde e piccante che accompagna il sushi. Appartiene alla famiglia del rafano ed in giapponese si chiama anche namida, ovvero “lacrime”, a causa del suo aroma estremamente pungente. Viene ricavato grattugiando la radice fresca su un’apposita grattugia, l’oroshigane, tradizionalmente ricavata dalla pelle di squalo e i veri intenditori sanno che un buon wasabi andrebbe sempre preparato al momento per poterne apprezzare al meglio la fresca piccantezza.

Il nigiri sushi (pronuncia “nighiri”) è la forma di sushi più conosciuta in Occidente. Il suo nome significa letteralmente “sushi fatto a mano” e la preparazione del boccone di riso dalla classica forma cilindrica richiede sette movimenti delle mani rigidamente codificati, tutti attentamente calibrati per donare al riso la specifica compattezza che ogni differente tipo di pesce richiede. In questa foto una variante relativamente recente, in cui il pesce è stato leggermente scottato sulla griglia ed aromatizzato con sale grosso invece che con la classica salsa di soja.
La foto di apertura ritrae in specifico un anago nigigi sushi, preparato cioè con fettine di gronco (anguilla di mare) e salsa nitsume. Questa salsa densa e dolciastra è ritenuta una vera squisitezza in Giappone ed ogni itamae possiede una propria ricetta segreta per prepararla ed il proprio gesto speciale per spennellarla sul pesce in giusta quantità.
Il maki sushi (pronuncia “machi”), ovvero il sushi arrotolato, sembra il più semplice ad un occhio poco esperto ed è di fatto l’unico tipo di sushi sagomato che viene preparato con frequenza anche a casa in Giappone. Un maki sushi realizzato a regola d’arte deve avere il ripieno posizionato esattamente al centro dei rotolini, che devono essere tutti della stessa altezza, della stessa consistenza e che devono stare in piedi stabilmente, belli dritti e senza aprirsi. L’alga nori utilizzata per avvolgere lo shari deve essere in uno strato solo e restare ben croccante. Ecco perché per gustare i maki al loro meglio vanno preparati proprio al momento.

Annalena De Bortoli

CORSO DI SUSHI… galateo

Ciascuno di noi se lo chiede quando si trova davanti un bel piatto di sushi e non sempre sappiamo darci una risposta: ma come si dovrebbe mangiare il sushi? Per i Giapponesi si tratta di gesti naturali, basati sulle regole di base del galateo a tavola nipponico a cui vengono educati fin dall’infanzia. Per gli Occidentali invece il rapporto con il cibo giapponese, soprattutto con il sushi, risulta irto di dubbi e difficoltà. E ci si fa assalire dai dubbi più disparati: come si usano le bacchette? Quali salse vanno abbinate a cosa? Le decorazioni si mangiano? C’è una sequenza nell’assaggiare i vari bocconcini di sushi tanto piacevolmente disposti nei piatto?

L’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi in collaborazione con l’Associazione dei Ristoranti di Sushi in Giappone ha pensato di dissipare ogni dubbio preparando per gli estimatori della cucina giapponese una sorta di piccolo “Galateo del Sushi”, che ogni mese ne affronti e ne spieghi in modo semplice una caratteristica. E da cosa si parte? Naturalmente dalla storia del sushi, in modo che chi si avvicina a questo piatto sappia cosa ha di fronte e ne possa apprezzare il valore storico e culturale, oltre al raffinato sapore ed alla delicata armonia estetica.

Prima puntata: Le origini del sushi

Si dice che le radici del sushi affondino nella sua primissima versione, il sushi di carpa Crucian (carpa a specchi) di Oomi, l’attuale Prefettura di Shiga. Il piatto viene servito ancora oggi con il nome di nare sushi, con pochissime variazioni rispetto all’originale, fissato nel procedimento circa un centinaio di anni fa.

In origine dunque, durante il periodo Muromachi (14°-16° secolo), il sushsi veniva preparato miscelando la polpa del pesce con riso fermentato, in modo che l’acido lattico prodotto dalla fermentazione del riso agisse come conservante e la scorta di pesce potesse durare dei mesi. Il riso veniva poi eliminato e si serviva solo il pesce.
Con il tempo, con l’evoluzione delle tecniche di cottura del riso e con l’avvio della produzione di aceto di riso, da questa preparazione di base nasce lo ii sushi, un tipo di preparazione che permette di mangaire anche il riso. Da qui nascono poi tutte le varianti “moderne” di bocconcini di riso e pesce pressati insieme per poter essere mangiati in un boccone, come il Kansai saba-no bousushi (il sushi di sgombro pressato tipico del Kansai, la zona che comprende, appunto Shiga, otre a Kioto e Nara), o lo shoutai no suzume sushi, riso avvolto in filettini interi di orata e pressato.

Durante il periodo Edo infine, ovvero ai primi dell’800, si diffondono anche lo hako sushi, delicata preparazione che pressa insieme riso e pesce in una scatola di legno, e lo haya sushi, il primo “sushi” vero e proprio, che abbandona definitivamente il riso fermentato e condisce con aceto sia il riso che il pesce per farlo maturare più velocemente.
Lo scopo è ancora quello di conservare il pesce, ma la preparazione è molto più delicata ed insieme appetitosa ed oramai il riso è il vero protagonista. Non tutti infatti sanno che la parola sushi significa proprio “riso condito con aceto”… anche se molti sono convinti che stia ad indicare il pesce crudo non è affatto così! E proprio dallo haya sushi parte lo sviluppo del nigiri sushi, quel “sushi modellato a mano” che oggi tutti conosciamo.
Che oggi si citi la scuola di sushi del Kansai oppure di quella di nigiri sushi (i rotolini) di Edo, l’odierna Tokyo, sempre si intende una deliziosa preparazione a base di pesce e riso insaporito da un delicato condimento a base di aceto ed entrambi sono testimonianza storica della tipica cultura gastronomica giapponese, costruita e coltivata con cura nell’arco dei secoli.

Annalena De Bortoli